di Andrea Catizone, Avvocata e legal advisor
Affrontare il tema della sostenibilità sociale, oggi, è centrale per la costruzione di una società fondata su valori di giustizia sociale, equità, diritti umani attraverso l’introduzione di pratiche tendenti a garantire il benessere della comunità intera nel breve e nel lungo termine.
Si tratta dunque di una visione che non si pone come obiettivo il miglioramento della condizione di vita di una categoria di soggetti, ma attraverso il riconoscimento dei diritti pieni di quelle categorie discriminate si ottiene il risultato, ormai certo, di innalzare la qualità di vita della comunità composta da diverse soggettività. Riconoscere e valorizzare le diversità è la sfida più avvincente e più gratificante che la contemporaneità offre e benché non sia sempre così agevole, vale la pena affrontarlo.
Accanto a questa tematica si consideri la centralità che il lavoro ha acquisito nella vita di ciascuno di noi diventando il fattore identitario che sovrasta e supera ogni altro elemento fondativo della condizione umana. La professione che svolgiamo occupa la quasi totalità del nostro tempo e i luoghi di lavoro, ormai diffusi, sono diventati gli spazi nei quali si svolge la più parte del nostro tempo, a maggior ragione con il diffondersi di formule di esercizio delle attività lavorative e di strumenti tecnologici, che hanno cancellato i perimetri fisici e aprendo ad uno spazio diffuso in cui poter lavorare. Essere dunque dentro il mondo del lavoro è certamente una necessità primaria di sostentamento, ma diviene al contempo l’elemento identificante la persona. Ciò è certificato dall’ampia disponibilità a trasferirsi in Paesi in cui si possano esprimere al meglio le competenze di ciascuno, dalla continua formazione, e dalla richiesta, quasi pretesa che vi siano delle condizioni lavorative sempre più sostenibili nelle relazioni lavorative, nell’organizzazione del lavoro e negli spazi. All’interno di questo quadro si colloca a gran voce il tema della disparità di genere che già nel lontano 1999 veniva indicato dall’economista Goldman Sachs con la definizione di Womenomics per descrivere la necessità imprescindibile di superare il divario occupazionale tra uomini e donne per risolvere allora il tema della stagnazione dell’economia giapponese, come ben descritto nel libro She Leads, di cui sono coautrice.
Era già chiaro decenni fa che l’esclusione delle donne dal mondo del lavoro gravasse pesantemente sul prodotto interno lordo, ma che soprattutto incidesse sulla capacità di resilienza dell’economia e sulla sua capacità di adeguarsi alle esigenze cangianti con una rapidità inaspettata. Oggi si stima che il nostro Paese avrebbe un aumento del Pil del 12% laddove vi fosse una maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro, mentre invece i più autorevoli istituti di ricerca sono concordi nel ritenere che ci vorranno almeno 132 affinché il divario di genere in tutto il mondo sia sconfitto.
Due dati che messi al confronto ci impongono misure rapide per avviare il necessario cambio di passo in questa direzione in un Paese come il nostro in cui il 23,5% degli italiani ha oltre 65 anni, gli under 14 sono il circa il 13% e dove si registra un calo demografico costante come più volte denunciato dall’Istituto di ricerca nazionale. Per completare il quadro d’insieme non si può dimenticare lo spopolamento di intere aree del nostro Paese, in particolare nel mezzogiorno rurale o di centri non serviti da adeguate reti di trasporto pubblico o prive di servizi pubblici essenziali che non consentono la vivibilità. La risposta a tutte queste necessità la si trova nel perseguire con convinzione tutti gli obiettivi che riguardano la sostenibilità sociale, per intenderci la S dell’acronimo ESG (Environmental, Social, Governance). Si tratta di criteri di valutazione che vengono utilizzati per valutare le prestazioni di un’azienda in ambito ambientale, sociale e di governance centrali per le aziende anche dal punto di vista degli investitori che ormai si indirizzano solo verso realtà che siano responsabili e sostenibili, di lavoratori altamente qualificati che non sono disponibili a prestare attività lavorativa in aziende in-sostenibili, nei consumatori finali che, anch’essi scelgono prodotti o servizi che rispettino questi criteri.
I vantaggi che ne derivano sono misurabili e tangibili e collocano l’azienda, ma anche le istituzioni pubbliche che ancora faticano a sentirsi parte attiva di questo cambiamento, ad un livello qualitativamente superiore capace di generare benessere interno, ad essere competitivi, ad essere efficienti a smorzare i conflitti interni e costruire relazioni lavorative virtuose.
Il ruolo delle donne, come dimostrato, è fondamentale per spingere questo cambiamento, la parte normativa è stata ampiamente modificata, ci sono anche le risorse economiche, manca quella spinta culturale ormai non più rinviabile.