Intervista a Cristiana Scelza, Presidente Valore D ed Executive Vice President Electrification Prysmian
Ancora troppi gli ostacoli in entrata tra bias inconsci, pregiudizi, mismatch di competenze. Ecco perché dobbiamo incoraggiare le più giovani a percorsi STEM
Partiamo da un’analisi dell’entrata nel mondo del lavoro per le donne. Quali sono le barriere che incontrano rispetto agli uomini?
“Partiamo da una considerazione importante ovvero che la partecipazione delle donne al mondo del lavoro è una leva fondamentale per lo sviluppo delle aziende e la crescita del Paese. L’Italia ha il tasso di occupazione femminile più basso dell’Unione europea, solo 1 donna su 2 lavora e nel Sud.
Le barriere più evidenti sono collegate alla maternità e al mismatch di competenze. La maternità resta un nodo cruciale alla realizzazione professionale delle donne, uno ‘shock’ professionale che si ripercuote sul lungo periodo. Si chiama child penalty gap ed è il costo che le donne che lavorano pagano quando diventano mamme. È la penalizzazione che le lavoratrici subiscono per il fatto di avere uno o più figli: il loro reddito diminuisce drasticamente, o perché in molte lasciano il lavoro o perché non tornano a tempo pieno. Di conseguenza la loro carriera subisce uno stop, sia nell’avanzamento sul piano delle responsabilità che nella retribuzione. I dati ci dicono che dopo la nascita di un figlio solo il 40% delle donne permane nell’occupazione vedendo un calo dei redditi annui di circa il 76% (mentre per gli uomini si osserva un incremento salariale di circa il 6%). Le retribuzioni femminili ritornano al livello a cui si assestavano prima della maternità solo dopo 5 anni dalla nascita del figlio.
A questo si aggiunge il problema del mismatch di competenze, che in Italia interessa il 47,6% delle assunzioni. Nei prossimi anni il mercato del lavoro richiederà sempre più competenze digitali e tecnologiche – si stima che il problema riguarderà più di 2,1 milioni di occupati che avranno bisogno di competenze digitali entro il 2028; le donne sono meno formate in questi ambiti e rischiano di rimanere indietro, impiegate in occupazioni a bassa retribuzione e con contratti atipici. Favorire la presenza femminile negli ambiti STEM contribuirebbe ad assottigliare il gender gap e avrebbe ricadute positive sull’economia, con una crescita del Pil europeo pro-capite del 2,2-3%” nei prossimi 30 anni.”
Secondo lei, questa discriminazione è dovuta a giudizi e preconcetti verso le donne? Perché, anche a parità di qualifiche, si preferiscono figure maschili?
“I pregiudizi di genere giocano un ruolo fondamentale, spesso in modo inconsapevole. Tra questi, il bias di affinità ha un impatto rilevante: porta a preferire persone che ci somigliano, spingendoci ad assumere o promuovere candidati con cui riusciamo a identificarci più facilmente. Se le posizioni di responsabilità sono ricoperte da uomini può accadere che per posizioni simili, a parità di competenze, si continui a preferire una figura maschile.
I bias umani possono poi riflettersi sui sistemi automatici, condizionandone gli algoritmi. Il caso del colosso americano il cui sistema di recruiting non selezionava le candidature in modo neutrale rispetto al genere ne è un esempio: il software si basava su dati raccolti negli ultimi 10 anni e la maggior parte delle risorse assunte recentemente in ambito tech erano di genere maschile: le figure femminili venivano escluse automaticamente.
Infine, non è solo il ‘soffitto di cristallo’ a limitare la carriera femminile: uno dei principali ostacoli si trova già all’inizio della carriera, con il cosiddetto ‘broken rung’ (gradino rotto), cioè la difficoltà di ottenere ruoli manageriali di primo livello. Per ogni 100 uomini promossi a manager, solo 81 donne fanno lo stesso passo, il che frena l’avanzamento femminile in azienda e rende difficile mantenere una pipeline che porti le donne in ruoli senior.”
Le differenze si manifestano anche nelle forme contrattuali? In che modo?
“Sappiamo che la condizione delle lavoratrici in Italia è penalizzata dal difficile bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro e dagli squilibri nei carichi di cura. Le donne si fanno carico del 70% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura. A livello europeo solo le donne portoghesi dedicano più tempo al lavoro di cura non retribuito rispetto alle donne italiane. Questa situazione le pone di fronte a un bivio tra la vita privata e il lavoro, o le costringe a costruirsi percorsi professionali al di sotto delle loro potenzialità, con contratti part-time involontari o con forme di lavoro precarie, che riducono stabilità e possibilità di avanzamento. Secondo i dati, il 56,8% delle donne in Italia ha un contratto part-time involontario, mentre la media europea è del 20,5%.”
Tutti ostacoli che rendono più difficile per le donne raggiungere ruoli manageriali e apicali. Cosa deve cambiare?
“Per promuovere un cambiamento significativo, il primo passo deve avvenire all’interno delle aziende, che devono comprendere come la diversità rappresenti un vero e proprio valore aggiunto. Numerosi studi, come quello di McKinsey del 2023, dimostrano una chiara correlazione tra diversità nei ruoli di leadership e migliori performance aziendali: le aziende nel top quartile per diversità di genere nei team dirigenziali hanno il 39% di probabilità in più di ottenere risultati finanziari superiori rispetto a quelle nel quartile inferiore.
Sebbene l’inclusione della diversità sia un percorso complesso, i benefici sul lungo termine sono significativi. Un’organizzazione che inizia a investire nella diversità potrebbe incontrare difficoltà iniziali, come la necessità di superare stereotipi inconsci, modificare pratiche consolidate e trovare nuove modalità di gestione dei processi e delle relazioni. Tuttavia, una volta superate queste sfide, le performance dell’azienda migliorano notevolmente e mantengono livelli di eccellenza duraturi. In definitiva, questo impegno ripaga ampiamente.
L’Edelman Trust Barometer evidenzia inoltre l’importanza del ruolo del CEO nel guidare il cambiamento: i dipendenti si affidano a questa figura per promuovere un impatto positivo sulla società e per incarnare valori di inclusività e diversità.
Infine, per garantire un cambiamento duraturo, è fondamentale adottare un piano strutturato, misurare in primis dandosi degli obiettivi e poi monitorare i progressi e valutare periodicamente i risultati. In questo contesto, la certificazione di genere si rivela uno strumento virtuoso, in grado di misurare concretamente l’impegno delle aziende verso l’equità e la diversità, favorendo una trasformazione solida e sostenibile.”
Parliamo del mondo STEM. Sono ancora poche le studentesse che scelgono un percorso tecnico-scientifico. Una scelta dovuta a bias inconsapevoli e stereotipi di genere?
“Le ragazze sono spesso dissuase dall’intraprendere percorsi STEM da pregiudizi che vedono queste discipline come troppo difficili o non ‘adatte’ alle donne. Questo fenomeno è ben documentato, già a sei anni le bambine smettono di immaginare un futuro nelle scienze a causa di aspettative sociali e familiari, che portano spesso a un effetto Pigmalione, cioè a profezie auto-avveranti, per cui iniziano a credere di non essere portate per le STEM. Cambiare questa realtà è cruciale perché l’ambito STEM offre innumerevoli opportunità per il futuro del lavoro, ed è fondamentale che le donne ne siano protagoniste.
Per farlo servono programmi di orientamento, borse di studio e campagne di sensibilizzazione culturale per mostrare alle giovani donne che le STEM sono accessibili e gratificanti. La scuola in particolare gioca un ruolo fondamentale nell’orientare le scelte di studio. Lo conferma anche l’indagine #ValoreD4STEM promossa da Valore D tra alcune aziende del network che, fotografando la presenza delle professioniste STEM nelle organizzazioni italiane, rileva che oltre il 62% delle rispondenti aveva una predilezione per queste materie già sui banchi di scuola e che il 20% ha incontrato sulla sua strada un/una docente che le ha fatte appassionare alle STEM.”