Intervista a Francesca Vecchioni, Fondatrice e Presidente Fondazione Diversity e Diversity Lab
Superare i bias inconsci e sradicare i pregiudizi i primi passi verso una nuova cultura aziendale. Solo così è possibile integrare l’IA nei processi delle organizzazioni
Presidente, ci spiega innanzitutto come nasce la Fondazione Diversity? A quali esigenze vuole rispondere?
“La Fondazione Diversity nasce quasi 15 anni fa proprio per lavorare su diversity, equity & inclusion quando ancora nessuno lo faceva. La Fondazione e poi anche Diversity Lab – che è la divisione creata per dare consulenza e supporto al mondo delle aziende tramite progetti e campagne DE&I – sono cresciuti con lo scopo di creare una cultura dell’inclusione attraverso una serie di attività operando in particolare su due aree: la parte di ricerca e analisi e di osservatorio della società, quindi dei media, dei linguaggi, della comunicazione, e l’area di ricerca e processione dei dati con cui misuriamo sia i media che le organizzazioni. Diamo così alle aziende un bagaglio di informazioni utili e confrontabili rispetto a quanto l’inclusione, la diversità e l’equità si stiano sviluppando e a quanto ancora debbano svilupparsi.”
Ci spiega meglio?
“Ci sono due ambiti di lavoro: uno sui media in comunicazione e sui linguaggi e uno sull’immaginario collettivo, cioè quanto attraverso il linguaggio, le narrazioni, i media, l’informazione, si riesca a creare una cultura dell’inclusione. Da sempre la Fondazione Diversity e Diversity Lab lavorano in maniera intersezionale, cioè considerando le aree della diversity, che ingloba gli ambiti di genere e identità di genere, generazioni ed età, LGBTQ+, disabilità, etnia e aspetto fisico. Aspetti che analizziamo e misuriamo, per cui sviluppiamo attività e progetti sia dal punto di vista mediatico che consulenziale, cioè facciamo in modo che le aziende crescano sia all’interno che verso l’esterno in maniera da creare opportunità, aumentare i talenti e l’accessibilità, il tutto finalizzato agli obiettivi di business dell’azienda.
La diversity, equity & inclusion infatti non deve essere il fine ma lo strumento per riuscire ad alimentare e a connettere al meglio tutte le strategie in maniera che le organizzazioni possano crescere innovandosi grazie all’inclusione e alla diversificazione, due elementi non uguali ma che devono essere elaborati insieme secondo un principio di equità nei progetti. Insomma, a tutto tondo lavoriamo con le organizzazioni su ricerca, dati, media e informazione, creando percorsi di crescita sia interni che esterni su tutte le aree della diversità.”
La vostra mission è quella di promuovere una cultura contro pregiudizi e discriminazioni. Due elementi che spesso troviamo, purtroppo, nel mondo del lavoro. Quali sono gli strumenti per contrastarli ed eliminarli?
“Abbiamo un ventaglio di possibili strumenti. Sappiamo perfettamente che le persone dentro un’azienda creano o portano innovazione, e l’innovazione è crescita. Quando si riesce a diversificare si può parlare meglio con tutte le persone, disegnare prodotti e servizi migliori, e quindi si è molto più appetibili. Naturalmente non basta diversificare ma serve anche creare l’ambiente per cui questa diversificazione possa effettivamente svilupparsi, un ambiente davvero inclusivo di modo che le persone, i talenti, oltre a essere attratti dall’organizzazione, siano in grado di crescere e voler rimanere all’interno dell’azienda. Fondamentale quindi alimentare al massimo il benessere dentro l’organizzazione nel momento in cui si riescono a costruire delle strategie che servano a far stare bene le persone in funzione del fatto che sono molto diverse.
Tutti i processi partono dal recruitment, vero. Ma ancora prima dobbiamo parlare di job posting, di come si cercano le persone e di come farle sentire protagoniste della ricerca. Qui l’elemento centrale è il linguaggio, perché ci pervade anche inconsciamente. Nella ricerca è molto importante riuscire a essere inclusivi, facendo in modo che, per esempio, anche le persone con disabilità vengano raggiunte.
Ovviamente, questo vale anche in fase di colloquio, dove devono valere le competenze e non i pregiudizi. Le modalità migliori per fare un colloquio sono quelle che vanno a eliminare il più possibile i primi bias. Per esempio, oggi si parla di blind selection fino almeno al colloquio, quindi senza conoscere alcune condizioni della persona, come l’età o il genere ma anche il nome o il cognome, in quanto a volte possono portare con sé pregiudizi legati, per esempio, all’etnia. Sono attività molto utili per riuscire a togliere dei pregiudizi inconsapevoli nel momento in cui si inizia una selezione.
Quando poi si entra in azienda è necessario che questa sia in grado di includere. Ci sono tanti processi nel percorso della vita di una persona all’interno di un’azienda che possono essere discriminanti. Costruire dei percorsi di crescita che tengano conto del fatto che non siamo tutti uguali, costruire questo nuovo un approccio culturale di enorme valore, implica una crescita anche in formazione.”
Un esempio?
“Uno classico: la diversificazione di età, ovvero la differenza tra generazioni in azienda. Nel momento in cui vengono inserite molte persone giovani, anche in ruoli manageriali, in un’azienda con una popolazione più grande, bisogna avere già previsto una serie di strumenti per includere e fare in modo che queste popolazioni riescano a lavorare insieme e ad abbattere pregiudizi e stereotipi che potrebbero nascere. Bisogna comprendere come si cresce, perché si sta crescendo, immaginare e vedere la crescita di tutte le persone dentro l’azienda e in che modo, riuscire a farlo in maniera equa e inclusiva.
La cultura di un’azienda è fatta da tante parti dell’organizzazione: il modello di leadership che si decide di costruire e perseguire, i valori da adottare, la comunicazione sia interna che esterna. Non è solo un tema di crescita delle persone; le persone crescono dentro a un organismo a 360 gradi che rappresenta il proprio mercato. E se l’azienda vuole essere leader di quel mercato non può rimanere indietro rispetto a quanto si aspettano le persone all’esterno.”
L’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie possono aiutare a rendere questi processi più oggettivi e quindi inclusivi?
“Partiamo dal presupposto che l’intelligenza artificiale ha una competenza che noi umani non abbiamo, ossia la statistica. Daniel Kahneman e Amos Tversky ci ricordano la nostra irrazionalità nelle scelte economiche e dunque l’assenza di capacità statistica. Elemento che invece va riconosciuto all’intelligenza artificiale che però, ricordiamo, è nutrita da noi. La vera domanda è allora: siamo in grado di nutrirla in maniera debiased? In caso contrario la situazione non può che peggiorare perché affideremmo scelte definitive a un’intelligenza che noi riteniamo ‘infallibile’ nel momento in cui secondo noi è progettata in maniera corretta.
Se affidiamo a un’intelligenza artificiale la selezione dei curricula, una volta scelti non si torna indietro. Se gli input iniziali sono dei dati biased, alimenteranno una scelta circoscritta e discriminatoria. Se vogliamo veramente affidare tale scelta all’IA dobbiamo essere sicuri di aver eliminato quei pregiudizi alla base. Il problema è che, spesso, noi stessi non siamo consapevoli di questi pregiudizi.”
Cosa dobbiamo cambiare allora?
“Sulla base dei nostri bias noi tendiamo a costruire e alimentare l’intelligenza artificiale con la media di ciò che immaginiamo, una valutazione media delle diverse caratteristiche della popolazione escludendo gli estremi. L’unica vera soluzione è non basarsi su algoritmi che siano escludenti ma ragionando sempre per gli estremi, disegnare per gli estremi, includendo tutte le possibilità umane e quindi tutte quelle aree di diversità che non sono considerate nella media.
Se, invece, si disegna solo per la media si esclude, in questa gaussiana, parte importante della popolazione. I dati Eurostat ci ricordano infatti che le persone con disabilità (cognitiva, sensoriale o motoria) in Europa sono il 24%. Un dato molto significativo che, se aggiunto a quello di genere (51%) e alla popolazione LGBTQ+ dichiarata (10%), rende evidente l’errore cognitivo di pensare che la media delle persone sia quella su cui si disegna il mondo.”
di Susanna Fiorletta