Intervista ad Andrea Rubera, Head of Diversity, Belonging & Inclusion di TIM
Verso un modello aziendale basato sull’ascolto delle persone e sulla valorizzazione di tutti i talenti. I driver dell’azienda per una vera trasformazione culturale
Diversity & Inclusion management e diversity hiring. Cosa sono di preciso?
“Diversity & Inclusion management è la disciplina che rientra tra le attività delle risorse umane nata fra gli anni 80 e gli anni 90 nel Nord America, arrivando poi in Nord Europa prima e nel Sud Europa poi all’inizio degli anni 2000. In Italia in primis attraverso le branch italiane delle multinazionali e poi anche con l’adozione decisa da parte di aziende nativamente italiane come la nostra.
L’obiettivo di diversity management è migliorare la performance dell’azienda applicando un paradigma ormai scientificamente dimostrato, ovvero la correlazione tra quanto le persone si sentano incluse, o sappiano includere gli altri, e il senso di appartenenza che a sua volta è correlato alla performance. Infatti, più le persone incarnano la leadership inclusiva più alto sarà l’engagement delle persone stesse e del loro team.
Per metterla in altri termini, possiamo applicare il modello delle 3T elaborato da Irene Tinagli e Richard Florida: Tolerance, Technology e Talent sono le tre variabili che sono correlate in qualunque contesto geografico siano misurate. Perciò, più alta è la capacità di tale contesto di includere e di mettere ogni persona a suo agio, più alta la capacità di quel contesto di attrarre talenti e di produrre innovazione.
Invece, diversity hiring significa avere cura nel processo di recruiting di controllare due fattori. Il primo sono i bias, che non sono altro che uno dei meccanismi naturali di funzionamento del nostro cervello, qualcosa che non possiamo evitare. Il nostro cervello funziona con i bias per semplificare i miliardi di informazioni che riceviamo. Quando però i bias sono relativi alla valutazione di una persona, quindi di un essere umano, possono indurci a fare le scelte sbagliate. Nel processo di recruiting dobbiamo aver acquisito la capacità di riconoscere i bias, controllarli, gestirli ed evitare che questi bias portino a una perdita di valore.
Vanno tenuti sotto controllo anche i percorsi di selezione e gli strumenti con cui vengono fatti devono essere inclusivi, nel senso di essere fatti in modo da consentire a tutti di accedere nella maniera più adeguata. Questo vale, per esempio, per le persone con una disabilità sensoriale (vista, udito, etc.) o con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), ridefinendo i percorsi di accesso secondo la logica degli accomodamenti ragionevoli.”
Quindi dare a tutti gli strumenti necessari affinché non ci siano disparità in partenza.
“Il paradigma che negli anni è stato superato è quello che porta a pensare che la diversità sia un punto di arrivo. Non è vero, la diversità è il punto di partenza: esiste in qualunque contesto perché alla base della natura c’è la diversificazione; tutti noi siamo unici perché rappresentiamo miliardi di variabili diverse.
Dobbiamo andare oltre il concetto di uguaglianza per arrivare a quello di equità, che significa mettere a disposizione strumenti diversificati e specifici per ogni condizione esistenziale, per rendere il contesto privo il più possibile di barriere. Alla fine di questo percorso – ma lungi dall’esserci già – c’è lo universal design, un mondo in cui tutti i processi, le organizzazioni, i prodotti vengono pensati all’origine per essere accessibili da tutti.”
Quanto è cambiato il mondo HR in questi ultimi anni? La sempre più grande attenzione ai temi di D&I per l’inserimento lavorativo ha dato risultati concreti?
“In Italia il Diversity & Inclusion management è emerso in maniera piuttosto evidente dopo il 2000, quindi con un ritardo di 20 anni rispetto al Nord America, sotto impulso della Carta delle Diversità dell’Unione Europea, poi declinata per ciascuno Stato membro, che orienta anche tematiche riguardanti il mondo del lavoro.
Soprattutto sul tema di pari opportunità di genere le aziende hanno quindi cominciato a prendere consapevolezza e grande spinta è stata data dalle associazioni di aziende che intorno agli anni 10 del nuovo millennio sono nate. Voglio ricordare due di queste: Valore D e Parks – Liberi e Uguali, di cui Tim è rispettivamente socio sostenitore e socio fondatore. Un grande stimolo per le aziende permettendo loro quel salto di consapevolezza.
Altro importante stimolo proviene dagli investitori e dalle agenzie di rating che hanno cominciato a vedere i risultati delle aziende che hanno introdotto un approccio inclusivo al loro business. Performance valutate sugli indicatori interni ed esterni, quali il Return On Investment (ROI) e il Net Promoter Score che risultano migliori nei contesti aziendali inclusivi. Questo dimostra che se l’azienda ha adottato un approccio all’inclusione, ha performance migliori.
Per questo oggi le agenzie di rating chiedono alle aziende, che valutano nella loro attività di orientamento degli investitori, di esplicitare nel loro programma le iniziative di DE&I oltre che le tematiche ESG. Tematiche che si possono tradurre in termini quantitativi per cui oggi esistono diversi indici mondiali, come il D&I Refinitiv Index e il Gender Equity Index di Bloomberg, che misurano le aziende proprio su questo. Un meccanismo virtuoso soprattutto per le aziende quotate in borsa che hanno l’opportunità di essere performanti su questi temi.”
Parliamo anche di discriminazione e pregiudizi verso alcune categorie di lavoratori all’interno delle organizzazioni, tanto in entrata quanto nel percorso lavorativo di una persona. Come combatterla?
“È un tema prevalentemente culturale. Gli strumenti per rendere il processo di reclutamento più inclusivo sono in realtà abbastanza semplici. Mi spiego con un esempio. Ancora oggi in Italia non siamo culturalmente nella condizione di implementare quella che si chiama blind selection, ovvero rendere i profili dei candidati totalmente oscurati, mentre in alcuni paesi è già realtà dove alcune aziende decidono di ricevere curricula senza foto o senza specificare il genere e l’età.
Ecco, in Italia non siamo ancora a tale grado di maturità. Permane un tema culturale per cui i bias di genere o di disabilità sono abbastanza insidiosi ancora oggi. Nel primo caso rientrano, per esempio, quelli che portano a giudicare una candidata di genere femminile sotto aspetti legati al work life balance, alla vita familiare, alle prospettive di maternità. Nel secondo, in Italia abbiamo un approccio alla disabilità assistenzialista che comporta un’assenza di vera ricerca di talenti all’interno del mondo della disabilità e l’assunzione di persone con disabilità rimane quasi un obbligo di legge.
Un grande problema che influenza l’intero percorso lavorativo della persona con disabilità e che comporta, spesso, la tendenza a sottoimpiegarla. Allora la vera scommessa è catturare il talento anche nel mondo della disabilità cercando e trovando la persona che serve all’azienda in un determinato momento a prescindere dalla condizione della persona selezionata. Sono tante le mansioni sia di profili specialistici sia operativi che possono essere svolte in maniera ottimale da una persona con disabilità che ha un talento specifico.”
Grande attenzione infine alle nuove tecnologie. Come possono essere d’aiuto nello sviluppo di strategie di diversity & inclusion? Possono essere strumenti per ridurre al minimo bias e giudizi non oggettivi?
“Assolutamente sì. Per esempio, sul tema delle disabilità sensoriali la tecnologia è stata un grandissimo motore di inclusione, pensiamo a quanto sia stata semplificata la comunicazione con le persone sorde o non vedenti grazie all’innovazione tecnologica. Oggi abbiamo la possibilità di avere sottotitoli automatici, applicazioni che mettono in contatto istantaneamente con un interprete della lingua dei segni, l’audio lettura di testi e documenti.
Sicuramente tutto questo è un vantaggio enorme, soprattutto ora che abbiamo accesso in maniera più estensiva all’intelligenza artificiale. Penso, per esempio, al meccanismo dei prompt che consentirà a una persona con un disturbo specifico dell’apprendimento di risolvere in maniera molto più veloce un task che, in virtù della propria neurodivergenza, potrebbe essere molto complesso. E poi penso all’innovazione tecnologica collegata alla disabilità motoria, dove assistiamo a importanti progressi della robotica applicata alla protesica.
Il futuro dell’inclusione passa sicuramente per la tecnologia. Ovviamente bisogna conoscerla e in qualche modo dosarla e gestirla in maniera equilibrata.”
Il termine inclusione è molto ampio. Per questo il piano aziendale sulla D&I deve correre su diverse direttrici. Quali sono le vostre?
“Un piano deve avere delle direttrici, è vero, ma un’altra parte è invece modellizzabile. Esiste un percorso standard adattabile a più contesti, che segue il processo di funzionamento: acquisizione dell’endorsement del management, pianificazione, progettazione, messa in campo delle attività, formazione, sviluppo di policy, misurazione dei risultati e riprogettazione. Ma ogni organizzazione è un ecosistema a sé e quindi deve trovare i driver che sono più opportuni per il proprio. Non si può copiare dalle best practice, ci si può solo ispirare, perché sono veramente qualcosa che va calato nella propria cultura organizzativa.
In TIM all’inizio abbiamo provato a ispirarci a modelli nordamericani, ma non ha funzionato perché non era credibile. Abbiamo quindi creato un modello che per noi è passato attraverso una fase di storytelling. All’inizio non abbiamo fatto altro che ascoltare, farci raccontare dalle persone e raccontare noi a loro, abbiamo aperto un dialogo con le persone sui temi di D&I, disabilità, pari opportunità di genere, LGBT+. Abbiamo così stabilizzato un terreno di condivisione in cui le persone si sono sentite sicure di potersi aprire all’azienda.
Il nostro modello attuale è basato su tre driver principali. Il primo è fare emergere i bisogni dal basso. Siamo convinti che debba essere riconosciuta la competenza esistenziale, ovvero le persone che hanno un bisogno specifico devono avere la possibilità di indirizzare l’azienda verso la risoluzione del bisogno stesso di cui sono gli esperti. Persone assolutamente competenti nel capire e dire cosa serve loro per lavorare al meglio.
Il secondo driver è la valorizzazione dell’unicità. Al contrario degli Stati Uniti, dove le persone si identificano in gruppi di pressione tematici (afroamericani, LGBT+, donne, latinoamericani, etc.), in Italia rientrare in una categoria, in un contenitore, rischia di diventare una prigione. Perciò abbiamo voluto creare un piano D&I fatto da tante iniziative, più di 50, di cui ogni persona può utilizzare i percorsi e le iniziative che più rappresentano la complessità della propria identità.
Il terzo è, infine, lasciare tracce. Che significa essere vocali sulle tematiche sia all’interno che all’esterno, avere nero su bianco l’impegno sulle tematiche D&I in tutti i documenti dell’identità organizzativa: quindi il codice etico, la carta dei valori, la mission, la vision, il modello manageriale.
Uno dei nostri valori, infatti, è proprio l’inclusione, un comportamento che deve ispirare tutti e tutte, sia all’interno che al di fuori dell’azienda. Punto fondamentale per noi è inoltre avviare un percorso di comunicazione robusto e credibile. Nel 2023, ad esempio, abbiamo lanciato il progetto ‘La parità non può aspettare’ un ecosistema che TIM mette a disposizione del Sistema Paese come motore di sviluppo delle pari opportunità di genere; un progetto fatto di tantissime iniziative: da campagne advertising classiche a progetti innovativi sulla lotta alla violenza di genere come ‘Punti Viola’, in cui i nostri negozi diventano luoghi di prima assistenza per le persone che si sentono in pericolo, a progetti di Empowerment femminile per le Pari Opportunità di Genere nel contesto lavorativo.”