Dai modelli di interpretazione in grado di rispecchiare i valori e la cultura dell’azienda alle tecnologie immersive per percorsi di formazione a favore dei recruiter
Lo illustra la Professoressa Laura Iacovone, Docente e Ricercatore presso il DEMM (Dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi) dell’Università di Milano
In questo periodo storico l’IA rappresenta un vero e proprio hype che sembra pervadere ogni campo e ogni ambito dell’attività e dello scibile umano. Come spesso accade in questi casi, tuttavia, il dibattito rischia di produrre discussioni anche molto sterili allorquando ci si limiti a sostenere in maniera acritica tanto i benefici che i pericoli tipici dell’adozione di un’innovazione tecnologica, a maggior ragione se presenta una forte discontinuità rispetto al passato.
In realtà gli studi sull’IA partono dagli anni ‘60 e negli ultimi decenni – parallelamente all’avanzare della digitalizzazione e dell’economia dell’informazione – le potenzialità del machine learning applicato alle sempre più innumerevoli fonti di dati hanno trasformato il modo di lavorare delle imprese e la competizione in qualsiasi settore, fino ad arrivare ai giorni nostri dove l’IA generativa si sta configurando come una vera e propria “intelligenza” al fianco di quella umana, in grado sostanzialmente non solo di eseguire, ma di auto apprendere.
Ciò che ha determinato questo grande interesse è peraltro il fatto che da tecnologia riservata a una élite di scienziati o di addetti ai lavori l’IA generativa è diventata accessibile a tutti (come fu per internet), impattando in modo visibile (e invisibile) nella quasi totalità delle attività quotidiane, sia personali che professionali, individuali o di interazione con un sistema sociale, economico e produttivo.
Ciò per cui si contraddistingue l’IA generativa è apparentemente la grande efficacia ed efficienza con le quali processa interrogazioni anche complesse ed elaborazioni di dati al servizio di un obiettivo, in virtù di come i modelli di auto-apprendimento di tali software sono stati definiti e allenati per comprendere la realtà prima e proiettarla nel futuro poi – secondo la percezione della realtà e le competenze dei data scientist che li hanno generati. In altri termini, l’IA appare molto preziosa in tutte le attività “labour intensive” e “time consuming” dove per definizione è particolarmente difficile standardizzare o automatizzare.
In realtà sarebbe un grave errore interpretare il ricorso all’IA semplicemente alla stregua di un booster che replica l’attività umana per sostituirsi completamente. La vera sfida dell’IA, infatti, è quella che riguarda la possibilità per l’uomo di trasformare in meglio e innovare il modo di svolgere attività o di perseguire un determinato obiettivo, potendo delegare all’IA tutte quelle attività meno differenzianti centrate sulla ricerca, l’elaborazione, la sistematizzazione e/o la sintesi delle informazioni. In questa ottica, quindi, si pone più che altro un tema di competenze necessarie non solo per presidiare la tecnologia in senso stretto, ma per saperla utilizzare nel modo più etico, corretto e performante.
Uno degli ambiti professionali nei quali quindi tale tecnologia può dare un contributo nel mondo delle imprese è quindi proprio nell’attività di reclutamento, dove è necessario compiere numerose attività e di selezionare, sulla base di determinati criteri e valori, dei candidati con determinati requisiti su un numero estremamente ampio di soggetti.
La possibilità di applicazione in particolare nel diversity hiring richiede pertanto in primo luogo un lavoro di affinamento dei modelli sottostanti di interpretazione che siano in grado di rispecchiare i valori e la cultura dell’azienda. Questo rappresenta un prerequisito importante, per esempio nella stessa creazione e promozione degli annunci di lavoro per ottimizzare il linguaggio affinché sia il più possibile inclusivo e il relativo targeting per la loro pubblicazione; ancora, nell’automatizzazione dello screening dei curriculum e selezione delle candidature, focalizzandosi esclusivamente sulle competenze e sulle esperienze, per una valutazione che, superando i principali bias, possa configurarsi il più possibile imparziale.
Nella fase di valutazione dei candidati è possibile avere una maggiore efficacia integrando forme diverse di IA tra cui la generazione di test e l’emotion tracking con la rilevazione delle espressioni facciali, avendo apportato le necessarie personalizzazioni a modelli open source per ovviare a interpretazioni discriminatorie. In questo senso è possibile addirittura giungere a una personalizzazione del processo di candidatura, per risultare realmente inclusivi sin dai primi momenti dell’employee journey, grazie al ricorso di chatbot empatici e inclusivi o a interfacce accessibili per candidati con forme differenti di disabilità (es. screen reader).
A ciò si aggiunga la possibilità di integrare l’IA alle tecnologie immersive per la realizzazione di percorsi formativi a favore della funzione HR e dei recruiter in particolare, nei quali le persone possono simulare situazioni reali e sviluppare la consapevolezza dei propri bias inconsci o di ricorrere all’IA per analizzare il proprio linguaggio e verificare l’effettiva empatia e inclusività.
Ancora una volta, l’IA non è né in grado da sola in grado di sviluppare un percorso di diversity hiring, né è di per sé potenzialmente dannosa o discriminatoria. Per garantire responsabilità ed efficacia, l’attenzione deve essere sempre rivolta alle competenze di chi ha addestrato il modello di IA open source, che per sua natura accoglie e riflette anche tutti i pregiudizi che ancora sussistono a livello globale o che, in alternativa, ha progettato un sistema “chiuso” quale espressione diretta della cultura aziendale. In questo senso gli algoritmi devono garantire la massima trasparenza. La società e le aziende tuttavia si trasformano ed è quindi necessaria una costante manutenzione degli algoritmi, tanto a livello tecnico che contenutistico.
Il valore, in termini di inclusività e integrazione di tutte le diversità, sarà quindi dato dalla capacità dei data scientist di coniugare l’aumento dell’efficienza di elaborazione con la sensibilità dei modelli in virtù degli aspetti qualitativi (v. small data), sintonizzandosi costantemente con l’evoluzione culturale e sociale.