Intervista a Claudia Pallanca, membro del Comitato scientifico di SuperJob
Serve capacità empatica e culturale per superare gli stereotipi. Perché la diversità non è una debolezza, ma un valore che arricchisce la società e il mondo del lavoro
Ciao Claudia. Prima di tutto vogliamo sapere un po’ di te. Ci racconti la tua storia?
“Parto col dire che ho superato i 50, sono figlia unica di una famiglia di ceto medio, emigrata dalla Liguria a Milano per lavoro, mio padre ha sempre lavorato su treni a lunga percorrenza e mia madre casalinga. Insomma, sono una persona alquanto normale. Quando sono nata, nel 1965, per mia madre è stato uno shock. Durante la gravidanza non aveva mai accusato problemi se non un fastidio fisso in un punto del pancione. E poi è nata una figlia con focomelia congenita alla mano destra causata da un’aderenza fetale che ne ha determinato il mancato sviluppo.
Ricordiamoci che negli anni Sessanta le persone non normodotate erano gestite a parte riguardo alla frequentazione delle scuole. Non c’era alcun supporto psicologico, né aiuto, per le famiglie. I miei genitori si sono dovuti arrangiare in maniera artigianale a insegnarmi a fare le cose manuali. Un consiglio importante a mia madre arrivò da un pediatra, ovvero che avrei dovuto imparare a gestirmi e ad affrontare la mia disabilità con i mezzi che avevo. Di farmi comunque piangere, di farmi comunque fare fatica, di farmi trovare la mia strada. Un consiglio che mia madre ha preso alla lettera. Laddove non riuscivo, in qualche modo ce l’avrei dovuta fare. A partire dall’allacciarmi le scarpe, ad esempio, cosa estremamente semplice per chi ha due mani, ma per me di estrema difficoltà.
Ma il primo vero shock l’ho avuto a scuola, perché non volevano inserirmi in una classe di normodotati. Negli anni Settanta la mano destra era quella della scrittura e non si doveva imparare a scrivere con la sinistra. E alla fine ho imparato comunque a scrivere anche con la destra grazie agli escamotage di mia madre. È chiaro che è sempre stata una vita di lotte. Devi imparare a lottare, o lotti e quindi sopravvivi, oppure crolli. Non c’è una via di mezzo. Così mi dicevano i miei.”
Ne abbiamo fatta di strada, culturalmente e socialmente, rispetto a quegli anni?
“Credo sia importante parlare oggi di divers-abilità proprio perché viviamo in un mondo fatto di sicurezze date da preconcetti e da standardizzazioni. Tutto ciò che è fuori dagli standard nelle persone comuni crea dissesto, insicurezze e quindi paura. Ciò che non si conosce fa paura, sempre, oggi come ieri. Oggi, anche se a livello di informazione e di scienza sono stati fatti passi avanti, la difficoltà di essere realmente inclusivi è tangibile, perché chi è fuori standard rappresenta un qualcosa da indagare. Solo chi ha intelligenza e sensibilità comprende che la diversità, la divers-abilità, è semplicemente un modo diverso di approcciarsi. Chi invece non ha la capacità empatica e culturale di comprenderlo, lo vive ancora male.”
Quali sono stati gli ostacoli che hai affrontato sia nella sfera privata che lavorativa?
“Il primo è stato quello di insegnare alla mia famiglia che ero in grado di affrontare i problemi e le sfide quotidiane. I miei genitori hanno sempre cercato di preservarmi dall’affrontare fatiche in termini intellettivi ma soprattutto emotivi, chiudendomi in casa, non facendomi uscire, fare, esplorare. Ma più io crescevo e più volevo assolutamente affrontare il mondo per far capire agli altri che la mia diversità non creava problemi a nessuno, perché non ne creava a me in primis.
Momenti veramente brutali sono poi stati quelli della preadolescenza e adolescenza, dove si inizia ad avere quel confronto con i compagni. Io, con la mia mano più piccola, sono sempre stata vista come qualcosa di strano. Questa mia diversità mi ha aiutato a farmi una discreta corazza.
Ma è il mondo del lavoro che mi ha regalato più sorprese. Inizialmente sono passata attraverso il collocamento obbligatorio ma quello che mi proponevano erano sempre e solo situazioni da persona con problemi gravissimi, posti di lavoro assurdi. Per questo ho scelto di cercare direttamente posti di lavoro ‘normali’ senza passare dal collocamento obbligatorio, inserendo poi nel CV che, a causa di una malformazione congenita alla mano destra mi mancavano le dita ma che comunque potevo svolgere le funzioni richieste come tutti gli altri. Ancora oggi mi capita di dover affrontare qualcuno che mi guarda stupefatto, però crescendo ci si abitua.”
A proposito di lavoro, quante difficoltà hai incontrato nella tua ricerca? E nei colloqui hai subìto le conseguenze di pregiudizi e bias talvolta inconsci?
“Uno dei temi sui quali vorrei insistere e che vorrei fosse acquisito dalle istituzioni, dalle aziende, dalle persone comuni è che le persone con disabilità in realtà hanno delle diverse abilità, non delle incapacità. Laddove hanno delle mancanze, sono loro stesse ad aver sviluppato abilità compensative che permettono loro di avere una vita pressoché normale, pur rimanendo coscienti dei propri limiti. Le diverse abilità non sono un ostacolo, sono semplicemente una diversa modalità di affrontare la normalità.”
Qual è il messaggio che vuoi lanciare alle aziende e alle persone? Serve un nuovo modo di pensare, un nuovo paradigma?
“Oggi il collocamento per le persone con disabilità è quello mirato che permette alle aziende di selezionare i curricula più corretti e coerenti con le loro esigenze. Il primo messaggio che voglio lanciare alle aziende è quello di cercare delle eccellenze anche all’interno del collocamento mirato perché ce ne sono moltissime e di pensare alle persone con diverse abilità come risorse che arricchiscono veramente l’azienda con soft skill oggigiorno molto ricercate. Pensiamo alla capacità di fare gruppo, all’affezione all’azienda, al comprendere e trovare strategie alternative e adattive per risolvere i problemi. Pensiamo anche alle tante qualità come empatia, pazienza, comprensione, collaborazione. In generale, una modalità di approccio al gruppo decisamente propositiva. Perché le persone con diverse abilità, questo tipo di soft skill, le sviluppano ogni giorno della propria esistenza.”
Oggi siamo ancora un po’ diffidenti nei confronti delle nuove tecnologie. Parliamo invece dei risvolti positivi che queste possono avere anche per le persone con disabilità nel mondo del lavoro.
“Assolutamente. In azienda le nuove tecnologie possono essere di estremo aiuto, sempre che siano messe al servizio delle persone in modo specifico. Quello che è da valutare nell’utilizzo delle nuove tecnologie per le persone con disabilità è la specificità delle necessità. Faccio un esempio molto banale: nel mio caso sarebbe bellissimo poter avere più prodotti dedicati alle persone mancine. Anche l’intelligenza artificiale può trasformare le mancanze in utilità, con la realizzazione di prodotti e servizi tailor made per le aziende, rispondendo alle specifiche necessità. Come sempre, ogni difficoltà può creare delle opportunità.”
Tornando invece al tuo vissuto famigliare, gli insegnamenti di tua madre sono serviti?
“Sicuramente sono serviti a farmi una corazza. Sono madre, a mia volta, il nostro compito di genitori è fornire ai nostri figli le capacità per affrontare la vita da soli. Ringrazio sempre mia mamma per avermi fatto fare tanta fatica perché è attraverso quella fatica che ho imparato e ho capito fin dove posso arrivare. A mio parere la disabilità peggiore che possa esistere è quando una persona perde la fiducia in se stessa.”
di Susanna Fiorletta