L’uso delle nuove tecnologie immersive nelle attività di HR facilitano interazioni più autentiche e focalizzate sulle competenze, contribuendo a promuovere un’inclusione reale ed efficace.
di Laura Rita Iacovone, Docente e Ricercatore di Marketing Dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi – DEMM Università degli Studi di Milano
E’ generalmente condiviso e da anni oggetto di dibattito quanto, dal punto di vista valoriale e in vista dell’obbligatorietà del perseguimento degli obiettivi di sostenibilità, ogni organizzazione dovrebbe garantire la piena inclusione di qualsiasi forma di diversità e, in particolare, offrire le stesse opportunità di crescita professionale alle persone con disabilità, ove queste abbiano naturalmente le competenze in linea con i profili ricercati.
Eppure è altrettanto noto come la realtà sia molto diversa: discriminazioni, stereotipi negativi e pregiudizi che condizionano addirittura l’assunzione oltre che la carriera. Essere diversamente abili sul piano fisico non comporta peraltro essere meno brillanti sul piano intellettuale e/o incapaci sul piano professionale, ma solo la necessità di differenti canali di accesso e/o di interazione, a fronte di infrastrutture fisiche e digitali spesso centrate sul “cosa produrre” e non rispetto a “chi” deve utilizzarle.
Si constata quindi in generale un duplice problema di accettazione e percezione della realtà, nella quale per definizione convivono tante diversità.
Il primo gap a livello organizzativo riguarda la differenza tra ciò che gli individui affermano razionalmente, in linea con quanto è ritenuto accettabile socialmente, e i comportamenti effettivi delle persone, guidati dall’inconscio e dai conseguenti automatismi decisionali consolidati nel tempo. Di fatto, nella realtà si perpetuano modelli organizzativi, culturali e gestionali che, sebbene non più adeguati, sono difficili da scardinare perché minimizzano lo sforzo cognitivo, evitando che le persone si debbano mettere in discussione e ricorrere a nuove soluzioni. Accade quindi per esempio che piani strategici per l’inclusione – nonostante una consapevole, formale e generalizzata condivisione di obiettivi e finalità – non vengano interiorizzati sul piano del “vissuto emotivo” dai componenti dell’organizzazione, senza produrre alcun effetto reale su credenze, atteggiamenti e comportamenti quotidiani. Analogamente, si pensi ad esempio quanto nella società, a fronte della grave allerta ambientale per il presente e l’immediato futuro, prevalgano comunque gli interessi di parte e pericolose inerzie comportamentali.
Il secondo gap di percezione riguarda i bias cognitivi a livello individuale. Le decisioni (e i comportamenti conseguenti), infatti, non vengono prese sulla base della realtà osservabile ed oggettiva, ma sulla base della percezione soggettiva della stessa, interpretata e rielaborata in base alle priorità contingenti e alle informazioni che più facilmente vengono recuperate in memoria (euristiche). In questo senso, ogni individuo – in quanto “avaro cognitivo” – tende a ritenere più affidabili le informazioni più ricorrenti, quelle che più facilmente vengono in mente o che appaiono più familiari (v. e. della disponibilità); a interpretare qualcosa di nuovo sulla base di ciò che già si conosce (e. dell’ancoraggio); a giudicare le persone sulla base dell’apparenza o di stereotipi, privilegiando gli stimoli visivi, più che l’effettiva conoscenza dei fatti. In altre parole, si tratta di scorciatoie cognitive che possono portare in alcuni casi a dei vantaggi (come alla guida di un’auto), ma anche a grossi errori di valutazione in ambiti professionali, come nell’attività di recruiting o di assessment, a maggior ragione nel caso di persone con disabilità, la quale è associata a concetti, aggettivi ed emozioni per lo più negativi e per questo – a livello inconscio – rifiutati o soggetti a rimozione. In questo senso, gli input “visivi” relativi alla disabilità rischiano di sovrastare le caratteristiche della persona e delle sue competenze, passando inevitabilmente n secondo piano.
Per scardinare la cristallizzazione dei pregiudizi e modificare i gap di percezione nei confronti delle disabilità, delle persone disabili così come rispetto al loro potenziale a livello lavorativo è necessario che avvenga una sorta di “shock cognitivo ed emotivo” sul piano della consapevolezza che possa determinare un cambiamento nel mind set dell’individuo e quindi una sorta di riprogrammazione dei processi di elaborazione delle nuove informazioni disponibili per l’interpretazione del contesto.
In questo senso può essere molto efficace il ricorso alle nuove tecnologie immersive proprie del web 3.0 – realtà virtuale (VR) e metaversi tendenzialmente “chiusi” – per la realizzazione di simulazioni interattiva con avatar umanoidi, altamente realistiche ed emotivamente coinvolgenti, che se integrate ad algoritmi di intelligenza artificiale in grado di attivare i neuroni specchio (e quindi la componente inconscia), consentono di ottenere in tempo reale la misurazione degli effetti delle proprie decisioni e comportamenti. In ambienti protetti virtuali, tuttavia, i micro-traumi emotivi che derivano dalla consapevolezza dei gap tra ciò che si pensa di fare e i comportamenti reali rappresentano emozioni reali e cristallizzano nella memoria quanto vissuto e percepito, garantendo un’immediata ricaduta di quanto appreso nella vita reale.
Gli ambiti in cui tali soluzioni possono offrire risultati sorprendenti sono i seguenti:
- La formazione in VR dei professionisti HR, attraverso simulazioni realistiche di complessità crescente, con avatar interattivi con differenti livelli di disabilità più o meno manifesta, che consentano di misurare oggettivamente la correttezza dell’approccio utilizzato rispetto a tutte le variabili rilevanti nell’attività di recruiting & assessment;
- La creazione di contesti virtuali professionali live multi-player (metaverso) in cui i professionisti HR e i candidati possono svolgere le fasi iniziali dell’attività di recruiting e di assessment, con la libertà di esprimersi sotto forma di avatar più o meno fedeli, per concentrarsi più che sugli input visivi sull’interazione personale, l’ascolto e l’approfondimento delle competenze;
- L’organizzazione di gruppi di ascolto o di aiuto, in ambienti virtuali interattivi come nel caso precedente, dove le persone possano esprimere se stesse, oltre la loro disabilità, libere da ogni vincolo fisico, spaziale e temporale.